Un libro-inchiesta di Loriana Lucciarini

di Daniela Mencarelli Hofmann
Non sono mai riuscita a ridere guardando “Tempi Moderni”, il primo film con una forte critica sociale di Charly Chaplin. La storia di Charlot, un operaio che non sopporta i ritmi nevrotici della fabbrica e che si ammala, mi ha sempre intristito. È la fotografia impietosa della trasformazione dell’essere umano in un’appendice della macchina. A Charlot viene l’esaurimento nervoso, e poi perde il lavoro. Dopo diverse peripezie, penserà, non trovandolo, di farsi addirittura arrestare per poter mangiare.
Leggendo “Doppio carico”, il libro-inchiesta di Loriana Lucciarini sulla vita delle operaie metalmeccaniche, mi è venuto tristemente in mente Charlot che corre come un matto per lavorare al ritmo imposto dalla catena di montaggio, ma anche per andare al bagno o per fumare una sigaretta. E, quasi un secolo dopo, non è purtroppo un paragone assurdo, come ci racconta Pamela, una delle protagoniste di “Doppio carico”:
«Da un giorno all’altro sono stati cancellati oltre quarant’anni di storia sindacale. Non solo nelle normative, ma anche nelle conquiste salariali».
Il libro ci mostra un mondo del lavoro globalizzato e senza diritti, in cui a pagare sono prima di tutto le donne. Lo sviluppo tecnologico non ha migliorato la qualità della vita di chi produce; al contrario ha disumanizzato il lavoro, come ci racconta Livia, operaia della Fca Melfi Plant da diciannove anni:
«…questa fabbrica si mangia l’energia un po’ per volta. Appena entrati, tutte e tutti eravamo giovani e forti; adesso ci sentiamo stracci, corpi saturi di stanchezza, menti appannate dalla ripetitività che spazza via anche i pensieri. Io combatto per non trasformarmi in robot… Prima non era così. Le condizioni di lavoro nella catena di montaggio sono peggiorate nel corso degli anni.»
Si lavora in piedi davanti alla catena di montaggio che scorre velocissima, le operazioni sono tutte cronometrate. In teoria si dovrebbe assemblare dalla postazione, in pratica a ogni imprevisto ci si deve spostare velocemente. Livia ce lo spiega così:
«Uno, due, tre secondi a operazione, in una ripetitività senza fine, scandita dal tempo e dai macchinari, e interrotta solo dalle pause, gli unici minuti in cui ci ritrasformiamo in esseri umani… Ma dobbiamo avere le idee chiare, perché dieci minuti sembrano tanti ma volano in un attimo, con le toilette troppo lontane e le macchine del caffè sempre affollate…».
Anche Rosy, che da diciotto anni è occupata a Catania nella Stm, una multinazionale italo-francese, a partecipazione statale, leader della microelettronica di precisione, descrive così le caratteristiche del suo lavoro: la produzione è altamente automatizzata, i ritmi sono stabiliti dalle macchine e le operazioni svolte dagli operai sempre più semplici.
«Il nostro lavoro è organizzato da un software che detta le priorità e la tecnologia che deve servire alla macchina.»
Alla macchina, appunto, non agli esseri umani.
«Fra le operaie» aggiunge Rosy «sono aumentate le patologie, anche gravi, legate alla ripetizione dei movimenti… Uno scotto umano pesante per tenere il ritmo imposto dalla necessità di dover ammortizzare i costi fissi.»
L’erosione dei diritti ha significato un aumento della precarietà e della perdita del lavoro. Ce lo racconta Lara, che dopo sei anni di disoccupazione ha trovato un lavoro senza certezze contrattuali in un’azienda in cui i sindacati sono assenti. Non ha più partecipato alle lotte sindacali, perché nella nuova azienda ognuno gestisce per conto proprio il rapporto con i titolari. Le conseguenze sono evidenti: alla precarietà del rapporto di lavoro si aggiunge la insicurezza delle condizioni in cui si opera.
«Il capannone si presenta male anche all’esterno e dentro è sporco e maltenuto. L’attrezzatura è insufficiente per coloro che sono in servizio; inoltre noi lavoriamo in un reparto con macchine vecchie a cui mancano sistemi di sicurezza. C’è olio ovunque e rischiamo spesso di scivolare e farci male. Nonostante questo, il pavimento rimane sporco per giorni. Non abbiamo neanche i dispositivi di protezione individuale, i dpi la direzione non ce li fornisce.»
Essere costrette a vivere in condizioni precarie, aggiunge Lara, sfianca, toglie le forze, la speranza.
Dopo la bancarotta della azienda in cui era impiegata, Rita invece il lavoro non lo ha più trovato. Sopravvive grazie all’aiuto dalla madre ottantenne e guadagnando qualcosa facendo la babysitter. Da quando ha perso il lavoro non può più fare progetti, la sua vita si è come fermata. Ha perso le amicizie, perché non può permettersi nemmeno una pizza o un cinema.
Se la precarizzazione del lavoro riguarda tutti, sono però le donne a pagare il prezzo più alto. Le aziende metalmeccaniche, che hanno risentito molto della crisi, come raccontano Cinzia e Valeria, non hanno puntato su investimenti e politiche formative, ma solo sul contenimento dei costi attraverso la riduzione del personale e la precarizzazione del lavoro. Le donne sono state le prime a perdere il posto di lavoro; poi, quando la congiuntura è migliorata, hanno generalmente riassunto solo uomini. I titolari delle aziende temono lo spettro della maternità e discriminano le donne quando assumono, visto che non esiste una legge che lo vieti.
Ma la precarietà del lavoro per le donne si traduce anche in ricatti di altro genere. Di tipo sessuale, soprattutto. Nelle sole Marche, le molestie sul lavoro hanno interessato 41 mila donne e 36 mila hanno subito ricatti sessuali per ottenere un’assunzione, un avanzamento di carriera o per mantenere il posto di lavoro.
«Le molestie sessuali» dice Valeria «sono quasi all’ordine del giorno. Ho subito anche molestie fisiche. I capi fanno sempre battute e lanciano sguardi ambigui a noi operaie. C’è molto da fare in questo senso, bisogna combatterlo questo sessismo che impedisce alle lavoratrici di ottenere il giusto rispetto.»
Sessismo anche da parte dei colleghi, che ritengono le donne solo delle femmine confusionarie, non in grado di svolgere il lavoro al pari degli uomini.
«Le donne devono faticare il doppio, per vedersi riconoscere la metà.» dice Pamela che poi aggiunge «Ci sono stati episodi che mi hanno fatto sentire fuori luogo, sì. Non per i miei limiti, ma per quelli che i miei colleghi ponevano a me, in quanto donna. Dallo spostare pesi, all’uso del gergo e della terminologia meccanica pensando che io non la conoscessi, alle battute sul fatto che io potessi sporcarmi con cerumi le “manine” o i capelli.»
E infine il gender gap, la differenza salariale fra donne e uomini a parità di lavoro svolto e di preparazione professionale. Pari al 23%, sottolineano i dati dell’ONU. Paola, Monica ed Elisa hanno svolto un’indagine su una multinazionale che fornisce software e servizi informatici a livello nazionale. I risultati sono disarmanti: la presenza delle donne nell’azienda è inversamente proporzionale al prestigio del ruolo. Nei livelli più bassi la presenza delle donne è del 70%, in quelli più alti scende a meno del 22%. E anche a parità di livello, le donne percepiscono un salario inferiore, 200 EUR in meno al V livello, più di 450 EUR al VII. Solo il 28% delle lavoratrici ha accesso a corsi di formazione, mentre la popolazione femminile è diminuita nel coso degli anni, dal 50% al 35% del totale. Meno lavoro per le donne, meno accesso alla formazione e meno stipendio a parità di lavoro, questa la sintesi della situazione attuale.
Se Charly Chaplin avesse girato oggi “Tempi Moderni”, sicuramente avrebbe scelto una donna per dare espressione al disagio del mondo del lavoro. Un disagio dietro a cui si intravede un sogno di libertà per tutte e per tutti che le dodici protagoniste di questo libro-inchiesta esprimono in modo diverso. Un sogno di liberazione dalla disumanità di questo sistema di produzione. Come Charlot, le dodici protagoniste di “Doppio carico” non sono operaie qualsiasi. Sono come lui espressione della coscienza incorruttibile, vicina al cuore degli esseri umani. Sono come Charlot libere nella loro capacità di continuare, nonostante tutto, a combattere per una vita migliore.
Editore: Villaggio Maori Edizioni.